Pensieri

A Nudo – Di Come Ho Impiegato Anni per Rendermi Conto che Non Ero Solo Triste ma Avevo una Malattia

E ancora cado.

Odio parlare dei disturbi mentali di cui ho sofferto perché oggigiorno la cosa è al tempo stesso stigmatizzata e mitizzata, facendo sì che la popolazione si divida tra chi ti reputa strano perché vai dallo psicologo e chi pensa che te la tiri perché dici di essere od essere stato depresso / avere attacchi di panico / soffrire d’ansia ecc ecc ecc. Perché è vero, fin troppe volte si usa il termine “depresso” per definire “triste”, e le cose sono diverse.

Ma tante, troppe altre volte questo stesso meccanismo impedisce a persone, proprio come me, di riconoscere e legittimare quella che è una vera e propria malattia che va curata, a volte con farmaci, a volte con una terapia, a volte con entrambi, a volte (sempre) per tutta la vita.

Penso di aver iniziato ad avere episodi depressivi verso i 14 o 15 anni, passavo le notti d’estate chiusa in cameretta a chattare su msn con i miei amici reali o meno, ascoltando musica e passando delle grandi ore rannicchiata sul pavimento a piangere così tanto da sentirmi soffocare, da farmi mancare il respiro. Il motivo non era mai chiaro e il fatto di soffrire così tanto senza ragione mi faceva sentire ancora più in colpa. Non avevo voglia di lavarmi i denti o di farmi la doccia e mi vergognavo e mi facevo schifo. E sprofondavo in un circolo vizioso. Non avevo voglia di migliorare, non riuscivo ad impegnarmi nelle cose che iniziavo, mi mantenevo sempre nel limbo del mediocre. E più continuavo più mi disprezzavo. Il dolore lo sentivo come nell’immagine di questo post, che poi mi sono tatuata: uno stormo violento e confuso che cerca di uscirmi dal petto ed io non potevo fare altro che strizzarmi come un tubetto di dentifricio per far uscire tutto, ma tutto non finiva mai.

A 22 anni, una mattina prima di andare in università, ero in bagno nel dormitorio di Sesto San Giovanni in cui avevo affittato una stanza. Non dimenticherò mai il momento in cui mi sono resa conto di soffrire una bruttissima invidia, e non quella che ti sprona a far meglio, ma quella distruttiva, che ti spinge a sperare che gli altri falliscano. L’invidia è un sentimento brutto e veramente velenoso, condannato da tutti e generalmente sepolto il più possibile. Pensa, hai mai sentito qualcuno ammettere di essere invidioso? E pensi che a me non faccia male dirlo ora? Ho iniziato ad andare da una psicologa ed ho continuato per quasi due anni, ma ancora non eravamo arrivati al nocciolo della questione.

24 anni, crollo più potente della mia vita. Avevo ricominciato, dopo qualche mese di pausa, ad andare in terapia. Ho sicuramente trovato la dottoressa che faceva al caso mio, quella che per la prima volta mi ha detto una delle frasi più forti e vere che io abbia mai sentito, una grande verità che ha cambiato il mio modo di vedere la vita: “Quello che conta non è il trauma in sé, ma la tua percezione dello stesso”.

La dottoressa C. mi supportava, mi stava vicina, si struggeva per il mio male, per i miei abusi, per la bassa considerazione che avevo di me stessa, gioiva dei miei successi e mi incoraggiava dopo i fallimenti. È stata lei a insinuare che forse c’era qualcosa che andava anche oltre il livello psico-terapeutico. Persi il lavoro della vita, il controllo, ebbi un crollo ormonale potentissimo e tutto questo mi fece impazzire ed imboccare la via dell’autodistruzione ad una velocità spaventosamente alta. Convenimmo, era il caso di andare da un altro medico. Lo psichiatra. Stavamo parlando di stigma?

La dottoressa C. mi suggerì una struttura ospedaliera ed un procedimento che mi permettesse di ottenere una prima visita in modo rapido: era davvero preoccupata per me. La psichiatra, dopo qualche domanda di rito e qualche risposta di cortesia, mi prescrisse una cura potentissima che mandò le mie emozioni in letargo per i successivi sei mesi. Della mia esperienza con gli psicofarmaci (di cui avevo già abusato prima di ottenere una prescrizione) parlerò più avanti. Tutto a un tratto era tutto bellissimo.

Ma al tempo stesso è stato lì, solo a cura iniziata da qualche settimana, solo nel momento in cui il mio mondo era anestetizzato e non mi fregava più un cazzo di niente, solo lì mi sono resa conto che queste medicine stavano funzionando. La psichiatra era stata chiara, non ci aveva girato intorno e non aveva avuto dubbi: aveva proprio detto depressione. Per me questa parola era un modo di tirarsela, non mi ero mai riconosciuta il diritto di soffrire, non avevo mai giustificato il mio dolore collegandolo ad una malattia. Ma se prendi un Moment senza avere mal di testa non ti senti meglio. E io con le benzodiazepine e la paroxetina stavo meglio. Stavo bene.

Chissà cosa avrei potuto fare, dove sarei potuta arrivare, se mi fossi accorta prima che non ero solo triste. Perché ve lo giuro che da quella palude ci si può uscire. La terapia si può scalare ed infine eliminare. Il tempo perso, però, non torna mai.

E il germe resta sempre lì.

Il cazzo di germe, probabilmente, non molla mai. A volte basta poco troppo poco per innescare il meccanismo.

E cado ancora. In una spirale di disperazione e sofferenza e lacrime sempre pronte a sgorgare da un momento all’altro senza un apparente, vero motivo, e inizio a dormire, e mi appiattisco, e  dormo, e sparisco.

Stavolta però conosco il mostro da combattere e so che la spunterò io. Stavolta, dopo tanti anni, ho capito che se soffro un motivo ci sarà ed il motivo è questo: mi chiamo Caterina e da tutta la vita soffro di una forma abbastanza leggera di depressione. Abbastanza leggera da bloccarmi su una quantità di fronti che non riuscirò mai ad enumerare. Basta piangersi addosso, ma non è giusto neanche negare la propria sofferenza: andate a fondo e, se serve, FATEVI AIUTARE.

Poi si cade meno.

Oggi sono caduta.

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