Un suono ghiacciato e acuto mi buca il cervello. Da dove viene?
…
L’ho già sentito, ma non lo riconosco.
Da dove vengo io?
…
È la sveglia che suona.
Oggi devo andare a lavorare presto. Ieri il primo appuntamento era alle dieci passate, e ho lavorato troppe ore extra che nessuno mi vuole pagare, quindi sono entrata dopo per recuperarne alcune. Ma oggi tocca la levataccia, e questo telefono che gracchia senza sosta segna l’inizio della giornata.
Lavorerò 7 ore, forse 8. Una marea di persone che ha bisogno di me e io non riesco nemmeno a spiegare che ho anche io bisogno di me. Sono prosciugata.
Lasciamo stare.
Mi alzo dopo aver rimandato la sveglia 6 volte, è passata mezz’ora e sono in ritardo. Come previsto lavoro 7 ore e mezza, e poi ho la serata libera. Le “Mamme in volley” oggi vanno a giocare ma io bidonerò, sono poche oggi e settimana scorsa mi sono innervosita perché ho perso e alle altre sembrava non importare.
Alle 17 vado a fare la spesa: ho mangiato solo verdure a pranzo e sono scannata dalla fame. Voglio preparare la pizza, ma è presto. Ho dei mestieri da fare, oppure il telefono da fissare. La scelta cade troppo facilmente sulla seconda attività e spendo un quantitativo imbarazzante di quarti d’ora persa nel nulla digitale.
Potrei andare a correre.
Potrei fare gli squat.
Quel docente di scrittura creativa ha detto che ho una buonissima base e di coltivarla. Quindi mi faccio un gin tonic, poi accendo l’hotspot sul telefono e dal PC guardo Bruno Barbieri lamentarsi per la milionesima volta dell’assenza del topper.
Non era forse questo il senso dei 2 anni di psicologo che ho concluso la scorsa settimana?
Accettare di sprecarmi, scendere a patti con l’idea di non essere nessuno.
In fondo c’è ancora domani, chissà. La sveglia suonerà alle 8, ma se mi alzo alle 10 che differenza c’è?