Veronika decide di morire di Paulo Coelho parla di una ragazza di 24 anni che prova a suicidarsi perché la vita non le interessa. Viene salvata, ma il cuore ha subìto dei danni molto gravi che ne causeranno l’arresto in pochi giorni. Durante questo periodo di tempo, nell’ospedale psichiatrico in cui viene ricoverata a causa del tentato suicidio, tutti rivalutano la propria concezione della vita, compresa lei, che ormai non l’ha più a disposizione.
Non sarà un mistero per quelli che mi conoscono che nel corso della mia vita ho più volte sperato che il mio cuore smettesse di battere autonomamente (tranquilla mamma, è passato).
Qualche tempo fa, un venerdì sera, mi crogiolavo nell’apatia quando una serie di eventi hanno cambiato i miei piani per la serata (leggasi: nessuno) e spinta ad uscire, per andare ad un party a cui sono stata molto spesso in un locale che conosco bene, ovvero il Linoleum al Rocket.
In quel periodo (non più di qualche settimana fa) non mi interessava bere o fare festa. Ora sto riprendendo un po’ la spinta ad uscire, ma dopo il trauma di fine agosto ho avuto un lungo periodo di pausa, niente feste, niente alcol, niente nottate fino all’alba. Perciò quel determinato venerdì ero sobria ed intenzionata a restarlo, ma non erano in molti a condividere questa intenzione. Una volta nel locale, il mio accompagnatore si è sentito un po’ VIP. Perché siamo entrati gratis, perché ci hanno conferito il desiderabile Braccialetto del Potere per accedere all’ambìto ed invidiatissimo privé, e perché ogni pochi passi incontravamo qualcuno che conoscevamo. Eh già, in questo piccolo mondo delle serate milanesi basta davvero poco per essere qualcuno. Siamo quindi dei VIP, ma pur sempre di bassa lega. Lui è entrante, ed io uscente. Sono sempre più lontana da quel mondo che ho amato con tutta l’anima e per cui ho provato a dare tutto. Ma a cui il mio tutto non è bastato.
Ho provato rispetto per Davide che da diversi anni lavora a questo progetto e a cui sta andando sempre meglio. Se lo merita al di là del valore della serata in sé, di cui non parlerò ora (ma presto, insieme ad altre serate e locali milanesi) perché è uno dei pochi o forse l’unico che conosco abbastanza bene da poter dire che ha fatto tutte le cose giuste, senza mai pestare i piedi a nessuno, e senza mai leccare il culo a nessuno. E non è poco.
Ho provato empatia per quelle persone che si trovavano lì per fare festa, non per i ragazzini sbronzi con gli occhiali da sole che guardavano tutti gli altri con sufficienza né per le pantere da party che sfoggiavano il braccialetto di carta con l’orgoglio di chi si sente padrone di casa in qualunque posto (e proprio per evitare di essere scambiata per una di loro, nel privé ho evitato accuratamente di metterci piede). L’ho provata per il gruppo di giapponesi che ballavano in modo scatenato e ridicolo, per il ragazzo altissimo in mezzo a due ragazze che gli arrivavano a malapena all’altezza dei capezzoli e per quello che scattava foto con la macchina fotografica analogica.
Si stavano godendo la serata, quel preciso pezzo di vita, erano lì, in mezzo ad altri, valevano di più, di meno, a seconda di chi li guardava, ma erano indiscutibilmente solo lì.
Io non ero lì. Io ero ovunque.
Ho pianto, poi: perché non ne sono stata in grado, non apprezzo il dono della nascita da troppo tempo ormai, a volte senza individuarne il motivo, altre volte lo vedo chiaramente. Se non riesco più a stare in questi ambienti festaioli, pazzi e disordinati ma crudi e veri e liberatori, la causa è una sola: la fame di far parte di un mondo, non solo in qualità di imbucata per una gentilezza dell’organizzatore. Non solo da ex dipendente (con cui magari sei in debito di un paio di gettoni dei free drink) che ogni tanto bazzica ancora quei posti in cui ha passato ore ed ore della propria vita. Ma al tempo stesso il conflitto che nasce dalla fame reale, il non poter più sopportare una vita di stenti, di non potermi più permettere di farmi pagare l’affitto, il bisogno di vedere riconosciuto il culo che in fin dei conti mi sono sempre fatta al lavoro.
Non era un attacco di panico ma poco ci mancava. Criyng at the discoteque, Panic at the disco, proprio così! Io, il dancefloor buio, la musica forte ma lontanissima. E il panico che si sprigionava, si diffondeva, ed in pochi secondi eccolo alimentato anche dal fuoco della paura. Quale paura? Ma è ovvio, amica mia, la solita, inevitabile paura: quella di essere abbandonata.
Sì, perché “Tu sei sempre triste”. Da sempre.