Ieri era il mio ultimo giorno di lavoro.
Da quando ho accantonato l’idea di lavorare a tempo pieno nel mondo degli eventi, avevo iniziato ad interessarmi all’ambito sociale. Escluso tutto ciò che ha una connotazione medica (sono troppo impressionabile), ho fatto un percorso con l’ufficio di collocamento francese e ne sono uscite alcune piste. Per molte (educatore, assistente sociale…) servono dei titoli di studio. Per altre si accede tramite concorso, e per fare il concorso serve la cittadinanza francese, che non potrei avere prima di due anni. Quindi mi sono messa a cercare altre opzioni, ed un bel giorno arrivò la chiamata per un colloquio: agente d’accoglienza ed accompagnamento in un centro di alloggio d’urgenza. In poche parole si trattava di stare all’accettazione in una struttura che ospita circa 80 persone, divise in tre gruppi. La parte medicalizzata per chi ha patologie croniche da curare a domicilio ma non ha una casa, la parte di reinserimento sociale per persone che hanno problemi burocratici e bisogno di assistenza per riprendere la vita in società, e la parte di urgenza per persone senzatetto o senza documenti, che stanno lì in attesa di essere smistati ad un altro servizio (o, nei casi peggiori, rimessi in strada).
Queste strutture, in Francia, sono statali. I residenti hanno una stanza singola o doppia, bagni, lavatrice ed asciugatrice comuni, colazione e cena calde, kit d’igiene, vestiti extra se non ne hanno abbastanza.
Il posto era interessante, mi ha fatto vedere realtà che non conoscevo ed imparare molto. Non era facile, perché le persone lì dentro non hanno nulla ed il malessere si percepisce. Inoltre era pur sempre un impiego statale, con tutte le falle del sistema.
I colleghi si dividevano in due gruppi: quelli che erano lì per il posto nella funzione pubblica, e quelli che erano lì per vocazione. I primi, a mio modesto parere, avrebbero fatto meglio a fare il concorso alle poste, perché si trovavano a lavorare con un pubblico molto vulnerabile senza averne voglia, risultando estremamente sgradevoli.
Io speravo di fare parte dei secondi. Era molto bello vedere di poter cambiare l’umore di una persona, senza fare nulla più che essere umani.
Il mio contratto era di un mese e mi è stato rinnovato di un altro mese. Mi hanno chiesto poi se volessi restare, ma nel frattempo avevo preso la decisione che stavo ponderando da quasi due anni, ormai, ovvero di tornare in Italia.
Durante questi due mesi avevo legato con due persone in particolare. Un portoghese di circa 60 anni, piccolino ma tenero (a parte quando beveva), che un giorno mi aveva detto di aver lavorato in Italia, precisamente a Livigno e Semogo. Si tratta di due piccoli comuni a pochi km di distanza da casa mia, e la coincidenza ci aveva fatto molto ridere.
Un’altra invece era una donna che aveva fatto una depressione ed un coma in seguito ad un’asma, e da quando si era svegliata aveva molti problemi psico/cognitivi. Quando stava male non vedeva quasi nulla, aveva forti spasmi alle braccia, camminava col deambulatore. Ma quando stava bene camminava tranquillamente, vedeva di più (non c’era ragione biologica per il suo non vedere, si trattava quindi di un trauma psicologico) ed era una persona molto sociale, che avviava conversazioni e dibattiti nella zona comune solitamente silenziosa.
Certo, richiedeva più attenzioni del paziente medio del centro, ma imparava in fretta e noi comunque spesso non avevamo niente da fare.
I due hanno legato molto, e passavano parecchio tempo insieme, spesso nella stanza dell’uno o dell’altra, benché in teoria fosse vietato.
Dunque ieri era il mio ultimo giorno di lavoro. I miei due favoriti avevano commesso un’infrazione ciascuno, e per questo non erano usciti dalle camere negli ultimi giorni, almeno non mentre io ero presente. Perciò ho deciso di andare a salutarli. Sono salita in camera del portoghese livignasco, Alberto, e ci ho trovato anche Ratiba. Erano un po’ infervorati per gli avvenimenti degli ultimi giorni, ma dopo aver detto loro che era il mio ultimo giorno e che sarei partita, è successa una cosa che non mi aspettavo. Alberto, dopo aver verificato che non scherzassi, ha fatto un passo indietro, si è seduto sul letto, si è preso la testa tra le mani. Quando ha rialzato i suoi begli occhi grigio azzurri verso di me, una lacrima gli è rotolata sulla guancia. Per quel che riguarda la donna invece la reazione è stata più lenta. Ha cercato di convincermi a restare in Italia solo 4 o 5 settimane e poi tornare perché “Loro hanno bisogno di me”. E poi ha iniziato a piangere a sua volta.
Mi sono fermata in questo posto una manciata di settimane, a fronte di gente che ci lavora da vent’anni. Eppure per queste persone, anche una cosa scontata e naturale come la gentilezza, un’attenzione in più, diventa un bisogno primario. E perderlo, una sofferenza.
Ho scattato questa bellissima foto sorridendo con loro, li ho salutati e poi li ho lasciati alle loro vicende. Chiusa la porta e girato l’angolo, ho pianto anche io. Erano alcuni anni che non piangevo dopo aver dato le dimissioni.
Amo la tua animuccia tormentata e difficile, te l ho mai detto ?