Ho conosciuto Fabulous Khate una sera di ottobre o novembre in piazza Gobetti a Lambrate. Avevo deciso di farmi un giro e di bermi qualche birra dell’arabino. Avevo suonato a casa delle mie amiche ma non avevano risposto, probabilmente dormivano, probabilmente avevo pure rotto i coglioni a suonare a quell’ora della notte ma ci avevo pensato troppo tardi. Stavo dunque su questa panchina nel parchetto, a due passi da quella che ancora non sapevo essere una delle maggiori piazze di spaccio di Milano, quando la vidi arrivare nel buio. Non era una tipa che passava inosservata. Capelli rosso tragedia, labbra rosso sangue, berretto nero calato su due codini asimmetrici, e quegli occhi verdi che mi trapassarono nel momento in cui li posò su di me, a 20 metri di distanza. Portava una giacca di pelle, anfibi e calze a righe, una tirata su fino a metà coscia, l’altra era scesa appena sopra al ginocchio. Era una specie di moderna Pippi Calzelunghe punk, senza vivacità, carica di erotismo e con una birra in mano.
Mi chiese un accendino e se poteva sedersi, era stanca e mi raccontò di aver abbandonato alcuni amici, era un addio al celibato e le era venuto da vomitare all’idea che qualcuno a lei caro potesse aver deciso di sposarsi. Khate ci aveva creduto nell’amore, glielo si leggeva in faccia, lo si capiva dai discorsi, trasudanti un cuore infranto e mai più riparato. Mi raccontò che anni prima c’era stato un uomo, più grande, e lei aveva anche pensato che potesse essere quello giusto, ma poi una notte si era svegliata e si sentiva soffocare, si vedeva scorrere davanti tutti i “per sempre” finiti troppo presto, non ce l’aveva più fatta, lo aveva piantato in mezzo ad una festa ed aveva cambiato città. Non era quello che le aveva spezzato il cuore però. Di lui non mi parlò mai, ma seppe subito che io sapevo.
Profumava di vaniglia e di sesso quella notte, un odore che le sentii addosso spesso nei mesi a venire. Sembrava trarre giovamento dal chiudersi nei bagni dei locali per una sveltina con qualche sconosciuto, tornandone sempre con il rosetto perfettamente al suo posto.
Fu lei a farmi scoprire la cocaina, proprio quella sera su quella panchina, e restammo fino all’alba a parlare dei nostri passati inventando la maggior parte dei dettagli. Per quell’inverno (o erano più inverni? Le date si confondono e non riesco a mettere in ordine) ci frequentammo spesso, lei mi veniva a prendere in macchina sotto casa, facevamo due botte, andavamo a una festa. Mi metteva sempre in ombra ma non gliene volevo: anche io provavo un’attrazione irresistibile per lei ed ogni tanto capitò che finissimo a letto insieme. Lei era magica, sembrava aver già esplorato ogni angolo di quell’universo, ed era sempre a suo agio, facendo sentire a mio agio anche me, che avevo l’impressione di non sapere niente e di essere alle prime armi, per quanto non fosse così.
La mattina quando mi svegliavo lei era sempre sparita.
Il giorno in cui la trovai ancora in casa capii che era l’ultima volta che l’avrei vista. Era un giorno di fine primavera e lei mi aveva preparato il caffè. Mi disse “Parto per la stagione, tornerò a settembre”. Mi baciò sulle labbra, senza lasciarmi alcuna traccia di rossetto.
Settembre è cominciato e finito quattro volte ma Khate non è mai più tornata. Il numero di telefono è ancora attivo e ogni tanto controllo i suoi accessi Whatsapp. Ieri è entrata alle cinque del mattino. Ho scritto “Hey baby” (lei chiamava tutti così), ma non l’ho mai inviato. Al collo porto ancora la collana che mi fece quella sera a Lambrate con il tappo della sua birra. Fabulous Khate, chissà quale sarà il tuo vero nome, chissà quanti altri hai fatto innamorare in questi anni, chissà chi è quel pazzo che aveva il tuo cuore e l’ha fatto in mille pezzi, Khate, amore mio, amore di tutti, amore di nessuno.