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I Took A Pill In Ibiza

A Ibiza vivevo in una cascina sperduta in mezzo al nulla con il proprietario, un inglese burbero intorno alla cinquantina, ed un suo aiutante, un ragazzo polacco abbastanza simpatico con evidenti problemi di noia. Lavoravo alla mattina, di solito: giardinaggio, pulizie, cucinare. Alle 11 già era troppo caldo per stare al mondo. Il posto era una specie di paradiso isolato, con poca ricezione internet, un sacco di animali intorno, la parte di Ibiza che sicuramente non vedi a luglio. La prima fermata dell’autobus era a 4 chilometri a piedi. Nel tragitto, neanche un pezzo all’ombra.

Chiaramente mi interessava anche l’altra anima di quest’isola della perdizione.

Al sabato all’Ushuaia, locale ultra noto che avevo già avuto modo di scoprire tramite le storie Instagram di un ragazzo che avevo conosciuto a Tarifa durante una notte di pura follia, facevano un party chiamato Ants. Se entravi prima delle 16 era gratis, dopodiché costava 30 euro. Il polacco mi aveva proposto di andare e così eccoci lì, alle 15,59 fremendo per sapere se ce l’avremmo fatta. Ce l’abbiamo fatta. Ho ballato, completamente sobria (d’altronde i cocktail costavano 20 euro), per svariate ore, rapita da una musica che non ascoltavo da troppe settimane. Ho conosciuto, come sempre in modi strani, svariate persone, tra cui uno che dietro al collo aveva il mio stesso tatuaggio: i doni della morte. “Sono un promoter”, mi ha detto. “Oggi non posso, ma domani ti faccio spaccare” mi ha promesso.

L’ho chiamato il giorno dopo. Volevo andare a ballare al Privilege, ma siamo finiti a farci un grammo di coca in spiaggia fino alle sei del mattino. Prima di andare eravamo stati a casa sua: viveva con altri 17 promoter in un appartamento con un solo bagno. Tra questi, Lucrezia non ha voluto farsi una riga con noi, Evita non si ricordava di avermi vista il giorno prima, Gianni mi ha venduto una pastiglia. Era esagonale, dorata, con un grosso teschio stampato sopra. Quello era il mio regalo di compleanno per Romeo.

La pastiglia ha passato due metal detector all’interno dello zainetto che mi porto come bagaglio a mano, nascosta tra un milione di altre pastiglie – i lavadenti ed il colluttorio in pastiglia della Lush, me li regalò Giulio, ti ricordi? Pensavo esattamente ai controlli del metal detector mentre li infilavo in valigia molti mesi prima, ma non esattamente a questa dinamica. Non feci una piega, e non la fecero gli addetti alla sicurezza. Se mai dovrete trasportare droga su un aereo, potreste rimanere stupiti da quanti risultati escono scrivendo su Google “Bring Drugs Airplane“.

Non l’avevo avvisato, Romeo, che mi sarei trasferita da lui. Mi aveva chiesto di farlo decine di volte, ma io non ero mai convinta. A un certo punto però Ibiza mi metteva davanti troppi ostacoli che io non avevo voglia di affrontare, così ho preso il biglietto e 4 giorni dopo gli ho citofonato. È stato bello.

La pastiglia ha aspettato pazientemente per 24 giorni che trovassimo l’occasione giusta per mangiarla. Sì, perché che ci crediate o no, non è tanto facile trovare una festa adatta da queste parti. Reggaeton a palate, un paio di discoteche commerciali, centinaia di locali il cui intrattenimento musicale è fermo a 40 anni fa – karaoke, tribute bands, discopubs – ma niente che ti permetta di sfogare la quantità insensata di droga che circola da queste parti. E così abbiamo aspettato 24 giorni, finché il 24 del mese siamo andati a questa festa. Ormai alla pastiglia ci ero affezionata – sono pur sempre una scoiattola – ma Romeo non fece passare 5 minuti da quando entrammo nel locale. Senza neanche permettermi di dirle addio la spezzò e mi disse “Baciami”. Mi passò mezza pillola da lingua a lingua e la buttammo giù con la birra omaggio che avevamo avuto con il biglietto d’ingresso.

“Potrebbe sempre essere vitamina C”. Non avevo fatto altro che ripeterlo da quando ero arrivata. In fondo io e Gianni non eravamo così amici, l’avevo visto per circa 95 secondi, e Romeo – massimo esperto di pastiglie avendo passato 5 mesi a venderle in Olanda – sosteneva che fosse troppo farinosa e che era passato troppo tempo perché fosse forte.

Io volevo aspettare un’ora per giudicare, ma dopo 20 minuti mi sentivo già nella bolla. Le musiche ed i suoni più ovattati ma al tempo stesso più definiti, e una strana stanchezza mista a una sensazione di gioia inebriante e quasi insensata, mi facevano sentire strana. Fuoriluogo. Come quasi sempre.
Gli altri tre erano perfettamente sobri – volevano cercare tutto direttamente lì, ma il posto era ancora vuoto – e quindi potevo solo aspettare un cenno dal mio partner in crime. Il cenno non tardò ad arrivare: “Qualcosa sento, mi sa che non è vitamina C”. Il sollievo. “Spostiamoci nei divanetti, fidati!”. Non mi sono mai fidata tanto di qualcuno come di lui in quel momento. Da quando da piccola mi facevo le canne con gli amici non c’è mai stato niente in grado di darmi conforto quanto qualcuno che sapeva cosa stesse succedendo – o almeno ne avesse l’aria – e Romeo è sempre stato imbattibile in questa disciplina.

“Sale sale” mi disse. La voce alta, sicura.

Queste parole non si cancelleranno facilmente dalla mia testa. Era già ben salita, stava esattamente in cima ai nostri corpi, avvolgendo per intero le nostre menti e mandando i nostri cuori alla stessa velocità dei BPM del djset incredibile a cui stavamo assistendo. La sua voce si era amalgamata perfettamente con la musica, techno tendente alla trance, con il tappeto di bassi che non si fermava mai, attaccandosi al cervello, stringendolo e scuotendolo. La sua voce così melodiosamente intrecciata eppure chiaramente distinta da quella musica ammaliante e seducente mi ha dato tutto il conforto che aspettavo da tanti minuti, forse giorni, mesi, anni. La sua mano cercava la mia. Quando la trovò, diventammo una cosa sola.

Io, lui, tutto quello che ci aveva uniti, tutto quello che ci aveva separati, tutte le paure, le ore di attesa, le urla, la notte in commissariato, le parole che non riuscivamo a dire, quelle dette nel momento sbagliato, tutte le notti insonni, le giornate passate a dormire, i lavori persi, i pianti, l’eroina, il sesso violento, ogni singola bugia sulla faccia della terra, tutto quanto si concentrava nella sua lingua che sfiorava la mia, la attraversava, la circondava, fino a farmi ricordare che io ero io, lui era lui, eravamo soli in mezzo a tutti, come tutti siamo sempre soli in mezzo a tutti, e a chi mi ha chiesto perché hanno inventato la parola perfetto visto che niente è perfetto posso dire: alcuni momenti sono perfetti, questo momento è stato perfetto. E perfetta è stata la consapevolezza che non contava nulla tutto quello che lui aveva passato, tutto quello che io non avevo passato, in quel momento eravamo insieme, con una botta che aspettavamo da chissà quando, su un altro pianeta di cui eravamo gli unici abitanti. In simbiosi, chiudendo gli occhi sentivamo la stessa cosa, lo stesso bene, viaggiavamo uniti.

Due grammi di speed e due notti insonni dopo, mi sono ricordata di quel momento.

“Sale Sale. È bona.”

E facciamola salire.

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