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Luca e Peanut

Se Luca fosse stato di Roma forse il suo carattere sarebbe stato drasticamente diverso. Probabilmente sarebbe stato orgoglioso, fiero della sua città ma anche molto suscettibile. Avrebbe parlato un sacco di dialetto, iniziando le sue frasi con “Ao’!”, e ad ogni italiano che incontrasse all’estero avrebbe spiegato perché prima di imparare a fare la carbonara bisogna saper fare una gricia come si deve. Forse non avrebbe mai potuto prendere la decisione di abbandonarla, quella Roma eterna che è famosa tanto per il Colosseo quanto per la coda sul Raccordo. Invece Luca di Roma era soltanto vicino di casa, e quindi era partito da ragazzo. Qualche anno in Germania, 8 lunghi anni a Bordeaux che gli avevano regalato un francese quasi perfetto ma contaminato da un accento inseparabile, poi il viaggio oltreoceano. Vacanza in India, atterraggio a Perth ed eccolo: unico italiano in cucina al “Ristorante Pappagallo” accanto a un nepalese, uno spagnolo e senza chef che stabilisse le procedure.
“Quando vieni a mangiare qui puoi mangiare un giorno bene ed uno male, dipende da chi ti capita! In Nepal la pasta al dente non la fanno, manco sanno cos’è! E la bolognese non ne parliamo, ma nessuno spiega com’è giusto e quindi ciascuno fa un po’ come gli pare!”.
Poi erano arrivati l’acquisto del mezzo e la partenza per Broome. Questo paesone è una meta rinomata tra gli stormi di backpackers: ricco di infrastrutture ad uso diurno come docce, bagni, barbecue elettrici e prese della corrente, è facile vivere nel proprio veicolo senza spendere molto. In certi casi i viaggiatori si rifugiano negli ostelli o nei caravan park; spesso invece cercano di farla franca dormendo nel bush o alzandosi molto presto per sfuggire ai ranger che iniziano il turno alle 6 del mattino.
Luca aveva fatto così per la prima settimana, poi aveva trovato un campeggio a 15 minuti dalla città. Costava 10 dollari al giorno e aveva i servizi di base, così fu più che felice di sborsarli per poter dormire legalmente in santa pace.
Un giorno Luca, che aveva un 4×4 organizzato per la van life, si svegliò ed aprì il portabagagli. Era lì che teneva l’occorrente per fare colazione: l’immancabile moka, un fornelletto, piatti, posate e un po’ di frutta. Dopo aver mangiucchiato un paio di biscotti ed una pera con la buccia si alzò dalla sedia di tela che stazionava fissa accanto al fanale posteriore, si gettò due manciate d’acqua sul viso e cominciò a cercare l’asciugamano a tastoni. L’abitacolo dell’auto, fatta eccezione per i due sedili davanti, si era trasformato in un deposito caotico fatto ad incastri e nascondigli. Finalmente lo trovò, appoggiò i palmi coperti dalla microfibra all’attaccatura dei capelli ed iniziò a far scorrere le mani verso il basso. Fu in quel momento che sentì qualcuno toccargli un fianco. Scostò svelto l’asciugamano dalla faccia ed aprì gli occhi: ad osservarlo con un’espressione indecifrabile c’era un toro di novecento chili. Era Peanut.
Il ragazzo aveva già sentito parlare dell’animale domestico del campeggio. Il proprietario del terreno lo aveva trovato sul ciglio della strada quattro anni prima, quando Peanut era un vitello appena nato. La mamma era stata investita da un camion ed era morta, il figlio ciondolava accanto al suo cadavere con ancora il cordone ombelicale attaccato. Quindi Edward, il titolare del campeggio, lo aveva adottato e portato a casa insieme agli altri suoi animali. “Per quel che ne sa, Peanut è un cane” aveva detto diverse volte a chi gli chiedeva conto di quell’insolita mascotte. “Non ha mai visto un altro bovino in vita sua ed è cresciuto con i cani, quindi ha adottato i loro stessi comportamenti”.
Però restava pur sempre un bue (lo avevano castrato) e per quanto si credesse un cane la sua presenza era decisamente più imponente di quella dei suoi fratelli.
Peanut non sembrava nervoso, ma nemmeno troppo conscio della sua massa. Prima che Luca potesse avere il tempo per fare qualsiasi cosa gli diede un’altra leggera testata, ficcando il grosso muso dentro l’auto. Aprì la bocca ed afferrò un sacchetto di plastica che stava accanto al materasso ancora tiepido del romano, poi si allontanò. Luca riconobbe la borsa delle esche da pesca ed iniziò a gesticolare. “No! Lascialo! Via! Via!” poi provò in inglese, in fondo il toro era australiano. “Stop it! Go away! No!”.
Qualcosa funzionò, perché Peanut mollò il bottino. Invece che allontanarsi però tornò trotterellando verso il bagagliaio di Luca, il quale provò ad impedire il passaggio con poca convinzione: le corna dell’animale erano progettate per farlo desistere. Perciò Peanut si servì nuovamente dall’auto, afferrando stavolta il sacchetto della frutta. Il ragazzo decise di combattere: afferrò la busta ed iniziò a tirare, finché se la ritrovò tra le mani. Peanut non era d’accordo. Guardò Luca con espressione bovina. Fu lì che il romano ebbe il colpo di genio: infilò la mano nel sacchetto, prese una mela, la mostrò a Peanut e la lanciò lontano. Il toro girò la testa di centottanta gradi verso il solitario frutto, fissandolo per pochi secondi nei quali il ragazzo pregava. Poi si girò nuovamente, diede uno sguardo alla borsa piena, alzò di nuovo gli occhi sul ragazzo. Luca guardò l’animale con espressione bovina: lo scaltro Peanut non ci era cascato.
Pochi giorni dopo Luca raccontava questo episodio ad un gruppetto di emigrati come lui. Una ragazza che passava di lì sentì solo una frase, e pensò di aver frainteso: “Hanno un toro domestico al campeggio, mi ha rubato quasi tutte le mele!”.

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