Pensieri

Alla Ricerca del Tempo – & del Senno – Perduto

Marcel Proust lo abbiamo studiato tutti a scuola, uno scrittore di inizio ‘900 diventato famoso soprattutto per una -lunghissima- opera: Alla ricerca del tempo perduto. Il fulcro, l’anima, il riassunto di tutte le mie più profonde paure. Tra tutti gli autori che ho studiato, mi ricordo in particolare di Proust, perché aveva introdotto una figura retorica che negli anni mi è tornata in mente spesso, l’epifania. Si tratta di uno stimolo sensoriale (nel romanzo si parla di un odore) che da solo basta per riportare in vita un ricordo, nettissimo e travolgente. È una cosa che mi accade piuttosto spesso, in effetti. Odori, sapori. Suoni. Oggi è stata una canzone con una frase, ed il lunghissimo elenco di coincidenze vuole che la frase fosse in francese, come Proust, come la città da cui scrivo ora. Una canzone che mi è capitata all’orecchio casualmente e mi ha scaraventato con violenza in uno scenario di contraddizioni.
Stato psicofisico alterato.
Posto sconosciuto.
Persone conosciute.
Benessere chimico.
Consapevolezza dello sbaglio.
Voglia di sbagliare ancora.
Good players & bad players.

Ma sempre con il subdolo, vorace, assassino senso di catastrofe che non mi abbandona mai. Mai. Mai.

E quindi sono qui, sempre io, con qualche canzone nuova che tra anni mi ricorderà questo momento, uguale a mille altri, alla ricerca delle cose che ho perduto: il tempo, il senno, il sonno, i ricordi, la lucidità, la paura, le certezze, il conto delle volte in cui ho creduto che non ce l’avrei fatta e quelle in cui non ce l’ho fatta per davvero, gli amici, gli amori, le occasioni, le parole. Ecco. Tutte le volte che ho perso le parole. 

E potrebbe non sembrare. Ma sono davvero tante. 

Le ho perse perché a volte proprio non ce la faccio a spiegare cosa c’è che non va. A volte, davanti all’evidenza dei fatti (vedi: non c’è niente che non va), perdo la voce e le parole si confondono. Famiglia abbandono solitudine futuro fallimento paura. Paura Paura Paura. Ma come la spiego io a chi il mondo lo ha visto dal lato sbagliato della barricata? Come lo giustifico il mio malessere a chi ha vissuto una vita di stenti, a chi ha guardato la tragedia negli occhi, a chi è nato con niente ed è cresciuto vedendosi togliere anche quello. Come la spiego la mia fretta a chi ha dovuto aspettare che il giorno finisse per poter mettere un’altra tacca sulla testiera del letto? Come faccio a ricordare di quei pomeriggi, quelle notti, in cui stavo accasciata sul pavimento della mia camera con i corvi che mi uscivano dal petto e dagli occhi, strappando tutto quello che trovavano davanti a loro, vestiti, carne, emozioni, speranze, e a spiegare perché io ho visto l’inferno in faccia quando in realtà è sempre stato tutto solo nella mia testa?

E allora non riesco più a parlare. 

Ho impiegato 24 anni ad accettare che forse di star male ne avevo il diritto. E a capire che forse avevo bisogno di accettarlo. A rendermi conto che, come mi ha detto un giorno quella santa della mia psicologa, ciò che conta non è il trauma, ma la percezione del trauma. Oddio. Sì.

Ho impiegato 24 anni a farmi venire il dubbio che forse qualcosa a livello chimico funzionava male. Ho impiegato 3 mesi a rendermi conto di quanto pericolosa potesse essere la soluzione, la più semplice, la più estrema: l’apatia totale. 
Che liberazione. Ma ne valeva la pena? 
E poi la smania di sentire e sentire e sentire ancora, mentre io stessa mi iniettavo dosi forse non così trascurabili di anestetico, e non sentivo più nulla ed era bello da impazzire, ed io impazzii davvero in quei mesi di torpore, e senza rendermene conto ho toccato punti così bassi che credevo non avrei mai potuto vedere. E non vedevo.

Oggi sono qui.
E vedo.
Guardo indietro e vedo tutto il tempo che avrei potuto passare a farmi più male, così da arrivare a domani così stremata e senza forze da non poter fare altro che familiarizzare con l’abisso e provare a farmelo amico. E invece ne ho ancora di forze per sabotarmi, basta così poco per farmi schiantare che ancora non mi dichiaro fuori pericolo. In ripresa però sì. Ma è dura e certi giorni non vedo la luce in fondo al tunnel. Questo spleen autodistruttivo non mi molla mai, a volte si nasconde e mi illude, ma ci devo combattere costantemente. 

Voi non avete neanche idea di quanto tempo costa. Ed io non ne ho più.

 

 

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